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Gli omosessuali italiani sotto il fascismo



Testimonianza di Vittorio G.

Testimonianza anonima

Testimonianza di Giuseppe B. (Peppinella)


L’omosessualità in Italia

In Italia il movimento omosessuale per la parità di diritti ha una storia assai recente e risale al periodo della contestazione giovanile e dell'affermazione di altre minoranze prima escluse o marginalizzate, quali le donne. Il percorso di integrazione sociale è in ritardo rispetto ad altri Stati proprio a causa della relativa accettazione del fenomeno omosessuale e della sua repressione sociale più che penale, mentre nei paesi protestanti, dove i divieti sono più rigidi, i gay si muovono in rivendicazione dei propri diritti ben prima, già nell’Ottocento. Unica eccezione nel panorama italiano è il pioniere per la lotta antiomosessuale Aldo Mieli (1875-1950), solo italiano presente nel 1921 al primo congresso internazionale per la riforma sessuale, e che dà vita alla "Rassegna di studi sessuali" (1921-1928) dedicata al problema. A differenza della Germania, non c'è in Italia un particolare timore per il contagio dell’omosessualità, dato che non esiste alcun "Männerbund", una società di maschi intesa come gruppo accomunato da forti vincoli personali - questo perché tutta la società italiana è maschilista e dominata dall'uomo. Tuttavia, anche in Italia è grande l'influenza delle teorie di Otto Weiniger ("Sesso e carattere" viene tradotto nel 1913, dieci anni dopo l'edizione tedesca) e il fascismo ne condivide le idee di superiorità maschile e di ossequio della rispettabilità, in nome della quale gli omosessuali possono rappresentare una devianza fastidiosa.

La legislazione antiomosessuale

Al pari degli altri Paesi cattolici e a differenza dei Paesi protestanti, la legislazione italiana preferisce il silenzio alla persecuzione, l'autorepressione indotta attraverso codici comportamentali e usi sociali più che la repressione aperta: il risultato è egualmente efficace senza dover apparire brutali o creare scandali, semplicemente tacendo il problema - in questo caso l'omosessualità - inducendolo a contenersi o perlomeno a restare nascosto. Il codice penale italiano unitario del 1861, estensione della legislazione del regno di Sardegna, penalizza gli atti omosessuali tranne che nell'ex Regno delle due Sicilie, dove l’articolo 425 viene abrogato. Il successivo codice Zanardelli del 1889, primo creato appositamente per lo Stato italiano e volto a eliminare le discrepanze e le difformità, depenalizza in tutto il Paese gli atti omosessuali tra adulti consenzienti: lo Stato non si occupa di omosessualità, delegando il potere repressivo alla Chiesa cattolica, il cui metodo è l'indulgenza quando l'omosessuale è discreto e non desta scandalo, o l'induzione all'autorepressione attraverso il senso di colpa, o ancora l'esclusione dalla comunità nel caso di omosessuali conclamati che non nascondono il loro orientamento 'anormale' e che diano scandalo. Questo non significa che il fascismo, salito al potere nel 1922 con la cosiddetta 'marcia su Roma' di Benito Mussolini (1883-1945), non prenda provvedimenti contro i "femmenella", come vengono chiamati gli omosessuali, in parte tollerati e in parte puniti, sebbene non esista alcuna legge preposta ma solo il "Testo Unico di Polizia" del 1926 e il successivo del 1931 - il cui vantaggio è garantire a prefetti, questori, rappresentanti della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, carabinieri, ampia possibilità di manovra in assenza di prove concrete, denunce e processi, e allo stesso tempo punire un crimine che ufficialmente neppure esiste, in ossequio al codice morale che regola la vita degli italiani, la rispettabilità. Forse proprio per questo, la diffida e l'ammonizione (due forme di sorveglianza speciale: un richiamo a voce la prima, una specie di arresti domiciliari la seconda) sono comminate più del confino, mentre i metodi preferiti dagli squadristi fascisti sono quelli sommari e diretti dei pestaggi e dell'olio di ricino.

La rispettabilità nel codice Rocco

Dopo un lungo dibattito (che ricorda quello tedesco degli stessi anni, ma con intenti opposti) avviato nel 1927 con la bozza del nuovo codice penale, i legislatori decidono di non inserire l'articolo 528 che introdurrebbe la penalizzazione degli atti omosessuali: reclusione da tre mesi a sei anni per atti tra adulti, e fino a cinque anni se con minori, o in caso di prostituzione o di reiterazione del reato - come nel codice sabaudo, anche qui sempre a condizione che gli atti in questione creino scandalo, in ossequio al tacito accordo sociale della moralità pubblica e del perbenismo. Dunque, il fascismo non introduce leggi restrittive, pur perseguendo gli omosessuali, e il nuovo codice Rocco del 1931 non nomina neppure il vizio contro natura: scegliere il silenzio comporta non ammettere che vi sia un problema, e la tendenza piccolo-borghese del fascismo porta a negare l'esistenza sconveniente di persone non eterosessuali; gli omosessuali non hanno una loro identità di gruppo, non esistono neppure, semmai esistono singoli casi di persone che commettono atti contro la morale. In questo, l'omofobia fascista è del tutto diversa da quella nazista: l'omosessualità non è un contagio e l'omosessuale non è genericamente degenerato, ma un individuo sessualmente passivo che con la sua condotta suscita scandalo.

La repressione degli omosessuali durante e dopo il fascismo

La repressione sotto il fascismo è attiva: senza bisogno di processi, a propria discrezione la polizia può intimidire, picchiare, ammonire, diffidare o mandare al confino persone che presumibilmente turbano la moralità. Prima del 1936, gli omosessuali appaiono tra i processati per reati comuni e qualcuno finisce al confine politico a Ustica o a Lampedusa, poi sono mandati al confino politico - dal 1936 sulla scia delle leggi razziali tedesche del 1935, e in particolare dopo l'introduzione della legislazione razziale italiana, nel 1938 - come 'detenuti politici', ma questo provvedimento troppo costoso e dal meccanismo burocratico lento dura solo tre anni, dopo i quali i confinati sono rimandati a casa e tenuti sotto controllo; da allora alla fine della guerra gli omosessuali rientrano nella categoria dei 'detenuti comuni'. Il meccanismo in base al quale una persona ritenuta omosessuale viene inviata al confino politico piuttosto che a quello comune, ad ogni modo, non è chiara. Le questure di Vercelli e di Verona sono solerti nella repressione dell’omosessualità, ma si distingue nella sua opera moralizzatrice contro i 'pederasti' soprattutto il questore di Catania, Molina che nel 1939 inaugura una campagna personale contro gli omosessuali, dichiarati socialmente pericolosi - quasi la metà degli omosessuali italiani mandati al confino sono passati nelle sue mani. Tra i luoghi in cui gli omosessuali sono confinati, oltre a San Domino delle isole Tremiti, Ustica, e Ventotene, si ricorda il comune sardo di Carbonia - creato dalla dittatura e dove il lavoro dei prigionieri è sfruttato in miniera. Diverso, come in Germania, il caso delle lesbiche: esse incorrono più che altro in sanzioni morali e sociali, sono emarginate, magari arrestate, perseguite con motivazioni pretestuose quali supposte malattie mentali. Particolarmente accaniti nella denuncia del lesbismo sono preti e psichiatri: dato che l'omosessualità femminile non è perseguibile penalmente, la stigmatizzazione delle lesbiche avviene decretandole malate di nervi (isteriche). Anche in Italia, come in Germania, la società fortemente maschilista lascia agli uomini, anche omosessuali, maggiore spazio di movimento. Dopo il 1945, la restaurazione della moralizzazione da parte della chiesa cattolica impedisce per decenni l'accettazione sociale degli omosessuali; anche a livello legislativo vi sono negli anni Sessanta alcuni progetti di legge per la penalizzazione dell'omosessualità, ma non vengono presi in considerazione dai governi guidati dalla Democrazia Cristiana in ossequio alla tradizionale repressione non appariscente.

 



 
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Le lesbiche

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